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Albidona tra storia e leggenda
La storia di Albidona è avvolta nella leggenda. Il paese sarebbe stato fondato da un gruppo di profughi guidati dall'indovino Calcante che, ritornando dalla guerra di Troia, approdò sulle coste della Calabria citeriore, dove morì. Le origini di Albidona sono legate all'antica città magno-greca Leutarnia, di cui parlarono Licofrone e Strabone, ma la convergenza topografica tra i due centri non è attestata da alcuna fonte storica. Saranno poi alcuni storici calabresi del XVII e XVIII secolo, il Barrio e il Fiore, a ipotizzare che Albidona sorgesse sulle rovine della mitica Leutarnia.
Le origini del nome
Secondo il Barrio, Albidona esisteva sin dall'anno 1000 d.C., ma lo storico non precisa in che modo Leutarnia sia mutata prima in Levitonia, poi in Alvidonia e quindi in Albidona. Probabilmente, il termine Albidona o Alvidonia deriva dall'ebraico "???? ????", che significa "fiamma inferiore", per distinguerla dalla "fiamma superiore", corrispondente al Piano Senise (località posta a circa 1000 m s.l.m., a metà strada tra Albidona e Alessandria del Carretto); infatti, attestandosi a ciò, si potrebbe pensare all'esistenza di un antico vulcano spento nel territorio di Albidona.Il nome del paese potrebbe derivare anche dalla sua posizione geografica, posta su tre colli (i tre "timpuni": "cuastiell, front, guardiàn") rivolti verso il mare (e quindi verso il sole che sorge), interpretando il termine "Albidona" come "...che dona l'alba".
Origini
Storicamente, l'esistenza del paese in epoca mediolatina è testimoniata da un documento (forse un atto notarile) risalente al 1106, dove si asserisce il baratto tra alcuni monaci del monastero di S. Angelo di Battipede (nel territorio di Albidona) e un tale Andrea Spezzanite, che abitava nel territorio di Cerchiara. Durante i restauri della Chiesa di Sant'Antonio da Padova del 1957 fu ritrovata una tavola in legno, risalente al 1070, che riporta il finanziamento del restauro della Chiesa da parte di un devoto, tale Massenzio de Rago ("Hoc tectum Massentius de Rago fecit pro sua devotione. 1070"). Ma questo non costituisce una prova certa che attesti l'esistenza di Albidona nell'anno 1000, poiché non è possibile accertare che la data riportata sia esatta o che la tavola lignea non sia una falso di periodi successivi, e inoltre perché il documento asserisce l'esistenza della chiesa, ma non del paese, perché non è certo che le origini del devoto de Rago siano albidonesi.
Periodo feudale
Nel periodo feudale Albidona appartenne prima a Corrado D'Amico (1291); questi lo trasmesse in dote alla nipote Avenia, la quale andò in sposa a Giacomo d'Oppido. Poi il feudo passò ai della Marra, ai Sanfelice, ai Castrocucco e infine ai Sanseverino. Con il dominio angioino nelle due Sicilie, il paese passò ai Mormile, duchi di Campochiaro, che lo detennero sino ai primi anni dell'Ottocento.
I Chidichimo e il periodo fascista
Nel 1809 si insediarono nel territorio i Chidichimo, famiglia di origine albanese, che, ai danni del duca di Campochiaro, Ottavio Mormile, acquisirono la loro potestà nel territorio albidonese per tutto l'Ottocento e gli anni della dittatura fascista. Nel periodo unitario si distinse sulla scena politica Luigi Chidichimo, in qualità di sindaco prima e poi di deputato al Parlamento nazionale. In questo lungo periodo si alternarono come sindaci di Albidona altri esponenti della famiglia Chidichimo e di altre famiglie locali egemoni (e abbienti), quali gli Scillone, i Mele, i Dramisino, i Prinsi.
I "moti comunisti" del 1848
Negli anni in cui nelle città italiane ed europee maggiori scoppiarono i moti rivoluzionari, anche Albidona fu interessata dall'ondata di rivolta, che causò il ferimento (e la morte) di alcune persone e l'arresto di molte altre. Il sentimento ribelle fu incentivato anche dalle prime scintille rivoluzionarie scoppiate nel comprensorio di Albidona: ad Amendolara era stata istituita u circolo religioso affiliato alla ""Giovane Italia", guidati dal sacerdote don Vincenzo Mussuto; a Plataci si trovava il prete Angelo Basile, principale promotore dei movimenti.
Anche nel piccolo comune di Albidona fu costituito un circolo di sentimento politico "liberale", chiamato dai borboni "Setta dei rivoltosi", allo scopo di tutelare le famiglie povere e restituire loro le terre confiscate dalle famiglie nobili. Nel 1848 i rivoltosi iniziarono la sommossa, ma il movimento fu soffocato ed essi furono arrestati, processati e condannati dalla polizia borbonica.
I "comunisti, nella Settimana Santa del 1848, iniziarono in alcune aree del territorio albidonese il disboscamento, che non gli era stato concesso dal Comune, al fine di rendere i terreni disboscati coltivabili e assegnarli alle famiglie più povere. Ma le famiglie nobili albidonesi comunicarono, intanto, a Cosenza il "misfatto" dei rivoltosi. Essi, così, organizzarono una manifestazione popolare nel giorno di Pasqua del 1848, con l'appoggio di due liberali facenti parte della famiglia Scillone (altra famiglia abbiente di Albidona) e del notaio Dramisino. I ribelli protestarono in piazza Risorgimento davanti al palazzo Chidichimo, accusandoli di aver detratto il demanio agricolo alle famiglie meno abbienti; con i Chidichimo si schierarono i filo-borbonici. Ad avere la meglio furono i Chidichimo che, con l'appoggio della polizia borbonica, riuscirono a far arrestare e condannare i rivoltosi comunisti; nello scontro morirono addirittura due persone.
Alcuni rivoltosi, come il notaio Dramisino, Francesco Rizzo, Marzio Palermo, il Minucci e Giovanbattista Scillone furono condotti nell'isola di Procida, per scontare la prigionia, e qui morirono dopo qualche anno.
Padre Luigi d'Albidona
Tra i principali protagonisti dei moti rivoluzionari nel contesto regionale ci fu un frate cappuccino, il noto Padre Luigi d'Albidona, al secolo Luigi Cataldi, nato ad Albidona nel 1818. Il religioso, assegnato al convento di Torano Castello, entrò a far parte della "banda toranese" (composta da 27 uomini), stringendo amicizia con l'anarchico Giuseppe Petrassi e i fratelli Baviera. Partecipò, quindi, agli attacchi alle milizie del "Real governo" a Paola e alla "disfatta" di Castrovillari, dove incontrò anche i 17 albidonesi, che presero parte alla sommossa (tra questi si trovava anche Benedetto Cataldi, fratello del cappuccino, uno dei maggiori promotori della rivolta comunista ad Albidona). Fu arrestato nel 1850, processato nel febbraio del 1852 e condotto dopo un lungo periodo di latitanza nel carcere di Cosenza. Dopodiché fu portato nel carcere dell'isola di Nisida, nei pressi dell'isola di Procida. Il padre si dichiarò sempre e comunque "prigioniero politico", ma fu condannato prima alla pena di 18 anni di prigionia, ridotti in seguito a 13 anni; il cappuccino non li scontò mai tutti, perché morì dopo quattro anni, solo, malato e distrutto dalla terribile prigionia.
Il ventennio fascista e il periodo repubblicano
Nel ventennio fascista si distinsero ancora i Chidichimo (che governarono nel comune a periodi alternati e con i diversi esponenti della famiglia per ben 27 anni) e i Dramisino. Nel primo periodo repubblicano si alternarono ancora i Chidichimo e i Ferraro, ai quali si insediò poi Salvatore Dramisino (già commissario prefettizio durante la dittatura fascista, di ideale degasperiano (DC).
Dall'avvento socialista a oggi
Nel 1964, dopo un'amministrazione di 19 anni, fu superato da Antonio Mundo (poi consigliere provinciale, assessore regionale e deputato al Parlamento con il PSI). Fu proprio in questi anni che Albidona mutò la sua situazione, con la costruzione di servizi primari allora non presenti (1964), quali, ad esempio, il sistema fognario, la luce elettrica e la viabilità rurale.
FESTE E MANIFESTAZIONI AD ALBIDONA
Festa di San Michele Arcangelo e rito delle "pioche"
La festa di San Michele Arcangelo, Santo patrono di Albidona, si svolge l'8 maggio di ogni anno.
Anticamente pare che la festa si svolgesse il 29 settembre, giorno consueto per la Chiesa Cattolica dedicato ai tre Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Poi da un anno all'altro la data fu modificata e da quel momento San Michele fu festeggiato l'8 maggio. La festa del Santo patrono è quella che richiama ogni anno tantissimi emigrati, che rinunciano a qualsiasi impegno, pur di rivivere la festa che più rappresenta il proprio paese.
Il 7 maggio di ogni anno, invece, si festeggia San Francesco da Paola. La mattina si svolge la tradizionale fiera annuale, mentre nel pomeriggio si attua la celebrazione eucaristica, seguita da un corteo processionale, durante il quale il santo viene trasportato lungo le vie del paese.
Nella stessa giornata viene intrapresa una tradizione locale molto antica, legata a un rito arboreo di carattere pagano: la "pioca". Enormi esemplari di Pino d'Aleppo vengono trasportati a forza d'uomo o con l'ausilio (da pochi anni) di mezzi a motore agricoli in tutto il paese, accompagnati dalla musica popolare di suonatori locali di zampogna, organetto, fisarmonica e tamburello e con i gustosi prodotti tipici di Albidona (salumi, formaggi, vino locale). La festa si diparte per tutto il paese, dove altri gruppi di suonatori intraprendono gli stessi suggestivi accompagnamenti musicali. Solitamente nella serata della festa di San Francesco le "pioche" vengono innalzate nei punti più ampi del paese, sorretti da fascine e piccoli legnetti.
L'8 maggio si festeggia il Santo patrono. Nella mattinata si svolge la celebrazione eucaristica, seguita dalla prima parte della processione, accompagnata dalla musica della banda musicale o di suonatori locali di zampogna e da donne in costume tradizionale che trasportano i "cinti" (suggestivi contenitori per misure agricole decorati con omaggi floreali o candele). In questa prima parte del corteo processionale si trasporta l'imponente statua lignea di San Michele di datazione forse settecentesca dalla Chiesa Madre al quartiere nuovo (Piano Giumenta), arrestandosi in Piazza S. Rocco.
Nel primo pomeriggio si riprende la processione, che raggiunge tutto il centro storico, fino a ritornare nella piccola piazzetta antistante al Vestibolo della Chiesa nel tardo pomeriggio. Qui si svolge il tradizionale "incanto", un'asta di prodotti tipici, animali o manufatti artistici dedicati al santo offerti da alcuni devoti; i soldi ricavati saranno poi destinati alle spese sostenute per allestire la festa. Terminato l'incanto nella prima serata, vengono effettuati i suggestivi fuochi pirotecnici.
Nella notte, dopo gli spettacoli musicali allestiti grazie alle offerte della festa, vengono finalmente incendiate le maestose "pioche", il tutto accompagnato con la musica di strumenti musicali popolari, prodotti tipici e il buon vino; la festa, spesso, si inoltra anche fino alla tarda notte o la prima mattinata.
Festa di Sant'Antonio da Padova e la "Ndinna" (albero della cuccagna)
Il rito religioso è affine a quello del patrono, in quanto la mattina si tiene la celebrazione liturgica, seguita dalla processione, nella quale il santo di Padova viene trasportato per tutto il paese a forza di braccia; al rientro del santo nell'omonima chiesa, in piazza Convento, termina il culto religioso.
Nel pomeriggio si ha il momento più atteso dell'anno: la "Ndinna" (albero della cuccagna). Si tratta di un albero di abete, che viene acquistato, grazie al denaro ricavato dalla festa o alle offerte di alcuni devoti, dai comuni vicini di Alessandria del Carretto o Terranova del Pollino, i cui boschi di alta montagna sono ricchi di questo magnifico esemplare arboreo. Qualche giorno prima della festa di Sant'Antonio, l'abete viene trasportato da un corteo di albidonesi per le vie principali del paese, accompagnato dal suggestivo suono di organetti, tamburelli e zampogne e viene rilasciato in via Armando Diaz, attigua a Piazza Convento.
Nella festa di Sant'Antonio la "ndinna" viene innalzata nella citata piazza, dopo essere stata addobbata nella cima con prodotti tipici (uova, vino locale, fichi secchi, "taralli", formaggio) e a volte con animali vivi (galli, agnelli, capretti). Dopo di che inizia l'ambita scalata dell'albero ad opera di alcuni giovani albidonesi, che cercano di raggiungere la cima dell'albero (assicurati delle dovute precauzioni di sicurezza), per gustare i suoi buoni prodotti, lanciare dall'alto (circa 15 metri) uova o fichi, nel tentativo di colpire qualche sfortunato spettatore e diventare il protagonista assoluto della festa di Sant'Antonio. Nel momento in cui il coraggioso scalatore riesce a raggiungere la cima si assiste a scene molto divertenti, perché la gente gremita cerca di spostarsi in zone protette, al fine di evitare qualche tuorlo d'uovo sul vestito indossato per la festa. Dopo la scalata di diversi concorrenti, la "Ndinna" viene calata e viene trasportata per il paese nel suo rifugio, perché sarà utilizzata ancora l'anno seguente.
In passato l'abete veniva anche unto con oli o sapone, al fine di renderlo più scivoloso e meno facilmente scalabile, ma oggi questa usanza è stata ormai eliminata. La festa si conclude nella tarda serata con uno spettacolo musicale finanziato dalle offerte ricavate dalla festa.
Festa della Madonna del Cafaro
Festa della Madonna della Pietà